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La strategia di Trump per il Medio Oriente nel 2025: implicazioni per Israele

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Introduzione

Nel maggio 2025, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha intrapreso un viaggio di alto profilo in Medio Oriente, visitando Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti (EAU). Questo viaggio, caratterizzato da un’attenzione particolare alla stipula di accordi commerciali multimiliardari e partnership economiche, ha segnato un momento significativo nella politica estera statunitense nei confronti della regione. A differenza delle precedenti visite presidenziali che spesso davano priorità a iniziative diplomatiche come negoziati di pace o strategie antiterrorismo, l’agenda di Trump si è concentrata sulla strategia economica, sfruttando il potere finanziario degli Stati del Golfo per rafforzare gli interessi economici statunitensi. Tra i risultati chiave figurano un accordo di 142 miliardi di dollari per la vendita di armi con l’Arabia Saudita, descritto come “il più grande accordo di cooperazione in materia di difesa della storia”, e promesse di investimenti per 600 miliardi di dollari da parte dell’Arabia Saudita e 1,4 trilioni di dollari da parte degli Emirati Arabi Uniti nei prossimi anni ( The Guardian ; New York Times ).

Tuttavia, le implicazioni del viaggio vanno oltre i guadagni economici, in particolare per Israele, un tradizionale alleato degli Stati Uniti notevolmente assente dall’itinerario di Trump. Questa esclusione, unita ad azioni come la revoca delle sanzioni alla Siria e la mediazione di un accordo con i ribelli Houthi dello Yemen, ha sollevato preoccupazioni a Gerusalemme circa un potenziale spostamento delle priorità statunitensi verso gli stati del Golfo a scapito di alleanze strategiche di lunga data ( Reuters ). Il Medio Oriente nel 2025 è segnato da conflitti in corso, tra cui la guerra a Gaza, le tensioni con l’Iran e l’instabilità nella Siria post-Assad, rendendo l’attenzione di Trump sugli accordi economici piuttosto che sulla diplomazia un punto di contesa. Inoltre, le preoccupazioni etiche che circondano gli interessi commerciali della famiglia Trump nella regione e le domande sui legami con attori controversi complicano ulteriormente il panorama geopolitico. Questo rapporto esamina le motivazioni alla base della strategia di Trump, il suo impatto su Israele e le più ampie dinamiche regionali, affrontando le preoccupazioni sui presunti collegamenti con gruppi come l’Inter-Services Intelligence (ISI) del Pakistan.

Capito. Ora inizierò una ricerca approfondita per costruire la prossima fase analitica di alto livello del vostro documento, approfondendo le dinamiche trilaterali della statualità palestinese e della normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele. Questa sezione introdurrà contenuti completamente nuovi, con una sintesi verificata, basata sui dati e di livello esperto, che evita ogni ripetizione. Tornerò a breve con un nuovo segmento rigoroso, esclusivo e ottimizzato per i motori di ricerca.

Ricalibrazione strategica nel contesto mediorientale post-2023

Il violento attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 e la conseguente guerra di Gaza non solo hanno congelato lo slancio verso un riavvicinamento tra Arabia Saudita e Israele, ma hanno anche profondamente alterato i calcoli strategici di tutte le parti. Mentre le forze israeliane assediavano Gaza, il bilancio delle vittime del conflitto è salito a livelli senza precedenti: all’inizio del 2025, oltre 50.000 palestinesi erano stati uccisi secondo le autorità sanitarie di Gaza (di cui circa un terzo bambini), insieme a oltre 1.200 israeliani (per lo più civili) uccisi nell’attacco iniziale di Hamas. Queste cifre strazianti hanno galvanizzato la furia in tutto il mondo arabo e musulmano, rendendo qualsiasi normalizzazione palese praticamente insostenibile nell’immediato . L’Arabia Saudita, che solo poche settimane prima sembrava avviata verso un accordo storico, ha rapidamente congelato i colloqui mediati dagli Stati Uniti allo scoppio della guerra. Con toni insolitamente duri, il principe ereditario Mohammed bin Salman (MbS) ha condannato i “crimini dell’occupazione israeliana” a Gaza e ha ribadito che il regno “non” stabilirà relazioni con Israele in assenza di uno stato palestinese indipendente con Gerusalemme Est come capitale . Questo irrigidimento postbellico della posizione pubblica dell’Arabia Saudita – che sostanzialmente riafferma il nucleo dell’Iniziativa di pace araba del 2002 – rifletteva non solo la politica ufficiale, ma anche l’imperativo di allinearsi all’opinione pubblica regionale indignata.

In effetti, la ricalibrazione strategica di Riad alla fine del 2023 ha evidenziato il complesso equilibrio che la città si trova ad affrontare. Prima della guerra di Gaza, MbS aveva accennato a una certa flessibilità sulla questione palestinese. In un’intervista televisiva del settembre 2023 , sottolineò che la questione palestinese era “molto importante”, ma parlò di “agevolare la vita dei palestinesi” come obiettivo intermedio, esprimendo la speranza di “ottenere Israele come attore in Medio Oriente”. Osservatori americani e israeliani interpretarono questi commenti come un segnale che le richieste saudite avrebbero potuto spostarsi dall’immediata istituzione di uno stato a concessioni più modeste per migliorare le condizioni di vita dei palestinesi. Questa percezione di un’asticella abbassata nasceva dal contesto geopolitico: entro il 2023 MbS desiderava assicurarsi un patto di difesa statunitense e tecnologie avanzate per il regno, e sembrava sensibile al “prezzo” che l’Arabia Saudita aveva pagato a lungo legandosi a una posizione palestinese massimalista. Tutto ciò cambiò con l’incendio di Gaza. L’immenso spargimento di sangue e la devastazione televisiva hanno reso politicamente tossica qualsiasi presunta ritirata saudita sulla questione dello stato palestinese . MbS è tornato a una posizione intransigente, in linea con l’insistenza di re Salman sui diritti dei palestinesi. Nel suo discorso annuale al Consiglio della Shura nel settembre 2024 , MbS ha dichiarato categoricamente che l’Arabia Saudita “non riconoscerà Israele” né normalizzerà i rapporti “senza quello” – “quello” significa uno stato palestinese vitale. Il messaggio era chiaro: per quanto allettante possa essere un grande accordo tra Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita, il regno non può abbandonare la causa palestinese senza compromettere la sua leadership regionale e la sua legittimità interna.

L’opinione pubblica interna è un fattore cruciale, sebbene spesso sottovalutato, in questi calcoli. Sebbene l’Arabia Saudita sia una monarchia assoluta, il sentimento pubblico sul conflitto arabo-israeliano agisce come un vincolo reale, seppur informale, per i decisori. La carneficina della guerra di Gaza ha provocato un’ondata di rabbia popolare nella società saudita. Molti sauditi hanno partecipato a campagne di base per il boicottaggio di marchi e prodotti occidentali legati a paesi considerati complici di Israele: una dimostrazione lampante di attivismo civico in un paese che controlla rigidamente l’espressione politica. I sondaggi condotti dopo la guerra mostrano un’opposizione pressoché unanime alla normalizzazione tra i cittadini sauditi. Nel dicembre 2023 , ad esempio, il 96% dei sauditi intervistati si è espresso contro qualsiasi riavvicinamento tra Israele e il mondo arabo. Nel gennaio 2024 , l’opposizione pubblica saudita al riconoscimento di Israele da parte del proprio paese era salita al 68% , il livello più alto registrato in quasi un decennio. (Le diverse cifre riflettono diverse formulazioni delle domande, ma entrambe sottolineano un sentimento di schiacciante maggioranza.) Tali dati rafforzano ciò che notano gli esperti di scienze politiche: persino governanti autocratici come MbS devono valutare l’opinione pubblica interna su questioni di grande rilevanza. Di fronte a questo scenario, la leadership saudita ha poco margine di manovra. Avvicinarsi troppo a Israele senza progressi tangibili sulla Palestina potrebbe rischiare una reazione negativa interna o incoraggiare i rivali. Pertanto, la strategia saudita dal 2023 è stata quella di rallentare la normalizzazione , raddoppiando pubblicamente il prerequisito palestinese e mantenendo silenziosamente aperti i canali con Washington per un accordo migliore in futuro.

Anche il calcolo regionale dell’Arabia Saudita si è evoluto alla luce del mutare delle alleanze e delle considerazioni di sicurezza. All’inizio del 2023, Riad ha sorpreso gli osservatori ripristinando i legami con l’Iran in un accordo mediato dalla Cina, una mossa che ha attenuato la minaccia immediata del suo principale rivale e diversificato i partner di grande potenza dell’Arabia Saudita. Questa distensione con Teheran, insieme all’approfondimento dei legami con Cina e Russia, ha dato a MbS un certo margine di manovra strategico . Ha ridotto la dipendenza saudita da una partnership israeliana contro l’Iran, riducendo così l’urgenza di un accordo rapido con Israele a condizioni sfavorevoli. Tuttavia, ha anche introdotto nuovi vettori di rischio . La rete di delegati regionali dell’Iran ha chiarito che un allineamento saudita-israeliano potrebbe comportare dei costi. Il movimento Houthi dello Yemen , allineato con Teheran, ha intensificato drasticamente i suoi attacchi a lungo raggio con lo sviluppo della guerra di Gaza, prendendo di mira le navi nel Mar Rosso e dichiarando solidarietà con i palestinesi. Nel luglio 2024 , gli Houthi diffusero un sfacciato video di minaccia intitolato “Just Try It” (Provaci e basta) , con riprese di droni di porti e impianti petroliferi sauditi e mettendo in guardia Riad da qualsiasi sostegno agli sforzi militari israelo-americani. Nell’ottobre 2024 , mentre la guerra di Israele contro Hamas si protraeva, l’Iran avvertì esplicitamente l’Arabia Saudita che qualsiasi sostegno regionale a Israele avrebbe potuto portare ad attacchi alle infrastrutture petrolifere saudite. Tali avvertimenti non sarebbero stati presi alla leggera a Riad: il ricordo dell’attacco dei droni del 2019 ad Abqaiq (ampiamente attribuito all’Iran) è ancora fresco. In sintesi, il regno riconosce che normalizzare i rapporti con Israele senza risolvere la questione palestinese potrebbe infiammare i conflitti alle sue porte , dallo Yemen al Libano, e fornire all’Iran un potente grido di battaglia. L’apertura diplomatica di MbS a Teheran e il continuo impegno in forum come i BRICS e l’ Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai segnalano l’intenzione di coprire le scommesse saudite. Sta perseguendo metodicamente una politica estera multipolare, assicurandosi che, qualora la normalizzazione guidata dagli Stati Uniti dovesse arenarsi, l’Arabia Saudita non resti isolata o indifesa.

Da parte israeliana , la guerra dell’ottobre 2023 si è rivelata anch’essa una svolta, ma in un modo nettamente diverso. Il brutale attacco di Hamas e la massacrante campagna di Gaza che ne è seguita hanno radicato la visione del mondo dell’attuale leadership israeliana. La coalizione intransigente del Primo Ministro Benjamin Netanyahu , già la più a destra nella storia di Israele, è uscita dal conflitto ancora più avversa al compromesso sulla questione palestinese. La guerra ha convalidato, ai loro occhi, una dottrina di sicurezza senza compromessi. Come ha affermato senza mezzi termini un alto funzionario israeliano, la normalizzazione con gli stati arabi è auspicabile, ma non a scapito degli “interessi vitali” di Israele nei territori . In pratica, Netanyahu non è stato disposto a “pagare il prezzo” che la normalizzazione saudita avrebbe richiesto, ovvero qualsiasi concessione significativa in merito allo stato palestinese. Al contrario, il suo governo si è mosso nella direzione opposta. Per tutto il 2023 e il 2024, Israele ha accelerato la sua annessione di fatto della Cisgiordania. Ha approvato ondate di costruzione di nuovi insediamenti e ha sistematicamente legalizzato avamposti spontanei su territorio palestinese. Secondo i dati del gruppo di monitoraggio Peace Now, il 2024 ha visto la più grande confisca di territorio della Cisgiordania da parte dello Stato israeliano dagli Accordi di Oslo del 1993 : un drammatico furto di terra che rende un futuro Stato palestinese contiguo sempre più sfuggente. Allo stesso tempo, le autorità israeliane hanno continuato a indebolire l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) , tagliandone le entrate e conducendo incursioni militari quasi quotidiane nelle aree amministrate dall’ANP con il pretesto della sicurezza. L’effetto cumulativo è un’erosione della capacità e della credibilità istituzionale palestinese. Lungi dal contemplare misure per rafforzare un futuro Stato palestinese, la coalizione di governo israeliana sembra intenzionata a precludere tale possibilità .

Questa traiettoria intransigente è rafforzata dalle dinamiche politiche interne di Israele e dall’umore dell’opinione pubblica. Dopo la guerra, la Knesset (parlamento) israeliana ha approvato due risoluzioni simboliche che ripudiano apertamente la soluzione dei due stati . In una votazione degna di nota nel luglio 2024, i legislatori hanno dichiarato che l’istituzione di uno stato palestinese rappresenta un “pericolo esistenziale” per il futuro di Israele – persino il leader dell’opposizione Benny Gantz , spesso considerato un centrista, ha prestato il suo sostegno alla mozione. Il fatto che una tale affermazione possa ottenere un ampio sostegno in tutti gli schieramenti la dice lunga sul consenso post-7 ottobre in Israele. I legislatori che un tempo sostenevano la pace a due stati, compresi i membri del campo moderato, sono rimasti in gran parte in silenzio o si sono assentati, consapevoli di quanto impopolare fosse diventata l’idea di uno stato palestinese tra un pubblico israeliano sconvolto dalla guerra. Recenti sondaggi sottolineano questo cambiamento sociale. A maggio 2024 , quasi il 74% degli ebrei israeliani si opponeva a qualsiasi accordo di normalizzazione saudita che comportasse la creazione di uno stato palestinese. Metà degli ebrei israeliani intervistati ha affermato di preferire che Israele mantenga un controllo militare indefinito su Gaza piuttosto che vederla diventare parte di una Palestina indipendente. Solo il 19% degli ebrei israeliani riteneva plausibile una coesistenza pacifica a due stati: il livello di ottimismo più basso mai registrato da quando sono iniziati tali sondaggi nel 2013. Sulla scia dell’attacco di Hamas, persino gli israeliani di sinistra hanno ampiamente dato priorità al senso di sicurezza fisica e di vendetta rispetto ad astratti ideali di pace. Lo storico Omer Bartov ha osservato che gli israeliani ora percepiscono una “lotta a somma zero tra giustizia ed esistenza, [dove] l’esistenza deve vincere” . In questo clima di paura e fervore nazionalista, Netanyahu subisce poche pressioni in patria per fare concessioni ai palestinesi, e pressioni significative dai suoi partner di coalizione per non farlo. Figure ultranazionaliste del suo gabinetto (come il Ministro delle Finanze Bezalel Smotrich e il Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir) hanno apertamente promesso di bloccare qualsiasi misura che preveda la cessione di territori o sovranità. Questo contesto interno spiega perché, nonostante l’entusiasmo personale di Netanyahu per un colpo di Stato diplomatico con l’Arabia Saudita, abbia respinto a ogni passo i “gesti” palestinesi richiesti . Persino misure incrementali – come il congelamento dell’espansione degli insediamenti o il trasferimento di ulteriore territorio della Cisgiordania al controllo civile dell’Autorità Nazionale Palestinese – sono state considerate un prezzo troppo alto. La priorità di Israele dopo i traumi del 2023 è il consolidamento, non il compromesso .

Presi tra queste prospettive opposte, gli Stati Uniti hanno navigato in una delle loro iniziative mediorientali più delicate degli ultimi decenni. L’influenza di Washington è stata fondamentale sia nello stimolare il programma di normalizzazione sia, dopo l’ottobre 2023, nel cercare di mantenerlo in vita in mezzo alla crisi. All’inizio del 2023, l’amministrazione Biden ha lanciato un ambizioso tentativo di mediare un accordo a tre : la normalizzazione saudita-israeliana, unita a un patto di sicurezza tra Stati Uniti e Arabia Saudita e al sostegno degli Stati Uniti a un programma nucleare civile saudita, il tutto mediato dagli Stati Uniti. La logica era quella di raggiungere un vantaggio trasformativo per tutti: pace formale tra Israele e la più importante potenza arabo-musulmana, legami più forti tra Stati Uniti e Arabia Saudita (dopo anni di tensioni) e un impulso al moribondo processo di pace israelo-palestinese. Entro la metà del 2023, i negoziatori americani facevano la spola tra Riad e Gerusalemme per delineare il quadro. Imperativi strategici hanno guidato questa spinta. I funzionari statunitensi videro l’opportunità di contrastare la crescente influenza della Cina nel Golfo e di relegare saldamente l’Arabia Saudita all’interno del sistema americano. Consideravano inoltre un accordo tra Arabia Saudita e Israele un modo per rafforzare il fronte regionale contro l’Iran e potenzialmente mettere a tacere le critiche all’Arabia Saudita (conseguendo una svolta diplomatica che avrebbe fatto breccia nell’establishment della politica estera di Washington). Il presidente Biden, in vista della rielezione, era consapevole che un importante risultato di pace in Medio Oriente avrebbe potuto consolidare la sua eredità, così come gli Accordi di Abramo avevano fatto per il suo predecessore.

Eppure, fin dall’inizio, la mediazione statunitense ha dovuto fare i conti con difficili compromessi , non solo tra le parti, ma anche nella politica interna degli Stati Uniti . Qualsiasi trattato di difesa tra Stati Uniti e Arabia Saudita che emergesse da un accordo avrebbe richiesto una maggioranza di due terzi del Senato per la ratifica. Pertanto, Biden aveva bisogno di un’adesione bipartisan , il che significava accontentare sia i Repubblicani filo-israeliani che i Democratici scettici e attenti ai diritti umani. I Repubblicani al Congresso hanno chiarito che il loro sostegno a un patto saudita dipendeva dal conseguimento di una grande vittoria per la sicurezza e il prestigio di Israele. D’altra parte, molti Democratici hanno insistito su una significativa componente palestinese come contropartita morale per premiare l’Arabia Saudita (e implicitamente il governo di estrema destra di Netanyahu). Questo gioco di equilibri ha plasmato le posizioni negoziali degli Stati Uniti nel 2023. Gli inviati americani, guidati da importanti collaboratori di Biden, hanno cercato di quadrare il cerchio estorcendo limitate concessioni palestinesi a Israele , sufficientemente significative da placare i Democratici e i partner arabi, ma non così estese da far crollare la coalizione di Netanyahu. I colloqui a porte chiuse si sono quindi concentrati su fasi intermedie: un impegno simbolico per le aspirazioni a due stati , un congelamento parziale o un rallentamento degli insediamenti, il trasferimento di alcune aree della Cisgiordania al controllo amministrativo dell’Autorità Nazionale Palestinese e garanzie sui luoghi santi di Gerusalemme. Secondo i funzionari coinvolti, sia Washington che Riyadh hanno concordato sulla necessità che Israele “inverta… le tendenze all’annessione” sul campo come parte dell’accordo. Ciò significava frenare l’espansione degli insediamenti e la violenza che stavano minando lo status quo. Hanno anche concordato sul fatto che qualsiasi accordo dovesse riconoscere esplicitamente l’obiettivo di un eventuale stato palestinese (anche se solo come un orizzonte lontano). Durante l’estate del 2023, queste questioni divennero l’aspetto più spinoso del negoziato trilaterale tra Stati Uniti, Arabia Saudita e Israele – di fatto “l’elefante nella stanza” che nessuno poteva ignorare. Il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas , da parte sua, esercitò intense pressioni sui sauditi affinché non trascurassero gli interessi palestinesi. Determinato a non essere messo da parte come accadde durante gli Accordi di Abramo del 2020, Abbas coinvolse MbS “con tutte le sue forze”, esortando il regno a sfruttare il suo potere contrattuale con Israele a favore dello Stato palestinese. Questi sforzi garantirono che, fino all’inizio della guerra, una componente palestinese rimanesse sul tavolo del pacchetto mediato dagli Stati Uniti.

Lo scoppio della guerra nell’ottobre 2023 costrinse Washington a ricalibrare le proprie priorità da un giorno all’altro. Immediatamente, l’amministrazione Biden passò alla modalità di gestione della crisi: convogliando aiuti di emergenza verso Israele, tentando di ottenere il rilascio degli ostaggi e collaborando con Egitto e Qatar per alleviare la catastrofe umanitaria di Gaza. La grande diplomazia della normalizzazione fu relegata in secondo piano mentre Gaza bruciava . Tuttavia, anche nel mezzo della guerra, gli Stati Uniti non abbandonarono l’idea che un quadro di pace più ampio potesse emergere dalle ceneri. Di fatto, l’esplosione del conflitto riaffermò a molti responsabili politici che la questione palestinese doveva essere affrontata, non rimandata per sempre . Come ha osservato un’analisi, la guerra ha spostato la Palestina da un “ripensamento a una priorità internazionale urgente” per Washington e persino Riyadh. Con questo in mente, gli Stati Uniti hanno convocato silenziosamente un gruppo di contatto arabo nei primi mesi del 2024 per discutere il futuro di Gaza in tandem con la pace regionale . Questo gruppo – composto da Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Giordania e Autorità Nazionale Palestinese – si è riunito più volte per sviluppare una posizione araba coordinata. Entro gennaio 2024 , avevano redatto una “Visione Araba sugli sviluppi della causa palestinese”, essenzialmente un piano per porre fine alla guerra di Gaza e riavviare un processo politico in seguito. In particolare, un documento di risposta degli Stati Uniti (diffuso dal Dipartimento di Stato) faceva esplicito riferimento al potenziale collegamento della normalizzazione saudita-israeliana con i progressi verso una soluzione a due stati . Sosteneva che la pace e l’integrazione regionale “che andranno a beneficio di tutti” potevano essere raggiunte se la normalizzazione fosse stata accompagnata da “progressi concreti” nella risoluzione del conflitto israelo-palestinese. Nella diplomazia dietro le quinte, i funzionari americani hanno sostanzialmente affermato che la normalizzazione saudita dovrebbe andare di pari passo con misure per realizzare i diritti politici palestinesi – una posizione significativa, dato che gli Accordi di Abramo dell’era Trump avevano ampiamente aggirato la Palestina. Da parte loro, gli stati arabi nel gruppo di contatto sono stati inequivocabili: lo stato finale di Gaza deve essere legato agli obiettivi di uno stato palestinese . Arabia Saudita ed Egitto hanno spinto per qualsiasi accordo provvisorio a Gaza (come un cessate il fuoco o un meccanismo di ricostruzione) per rafforzare il ruolo dell’Autorità Nazionale Palestinese , aprendo la strada alla riunificazione di Gaza e della Cisgiordania sotto un unico governo una volta neutralizzata Hamas. Persino gli Emirati Arabi Uniti – un paese che si era normalizzato con Israele nel 2020 – hanno insistito su un quadro a due stati nelle loro dichiarazioni ufficiali durante la guerra, dichiarando che il “giorno dopo” deve “cambiare radicalmente la traiettoria”.Verso una Palestina indipendente che vivesse in pace con Israele. Tale unanimità tra gli stati arabi era sorprendente. Suggeriva che il consenso regionale sulla causa palestinese si fosse effettivamente consolidata in reazione alla guerra , invertendo la tendenza precedente, in cui alcuni stati del Golfo erano disposti a coinvolgere Israele senza un accordo di pace.

Nonostante questi sforzi diplomatici, la realtà sul campo nel 2024 ha imposto severi limiti ai progressi. La guerra di Gaza si è protratta molto più a lungo di quanto molti prevedessero, protraendosi in una massacrante campagna di 15 mesi condotta da Israele per smantellare Hamas. L’attenzione militare di Israele è rimasta concentrata su Gaza e sul contenimento di altri fronti (come le tensioni con Hezbollah al confine con il Libano, che si sono trasformate in una breve guerra alla fine del 2024). I funzionari israeliani non hanno offerto una chiara visione politica postbellica per Gaza, a parte un controllo di sicurezza indefinito, e hanno mostrato “scarsa disponibilità ad adeguare i [propri] obiettivi” nonostante le pressioni internazionali. In Cisgiordania, la violenza e le incursioni israeliane si sono intensificate, minando qualsiasi misura volta a rafforzare la fiducia. A metà del 2024, il ministro degli Esteri israeliano descriveva le operazioni nella Cisgiordania settentrionale come una “guerra a tutti gli effetti” contro le roccaforti dei militanti. Questa continua agitazione significava che qualsiasi discorso su negoziati o concessioni era sostanzialmente irrilevante : Israele era in modalità crisi e i suoi leader sostenevano pubblicamente che non era certo il momento di discutere di uno stato palestinese, che equiparavano a premiare il terrorismo. I diplomatici statunitensi cercarono di tenere la porta aperta: ad esempio, avrebbero esortato i partner arabi a non imporre una scadenza precisa a Israele per procedere verso una soluzione a due stati, temendo che un ultimatum si sarebbe ritorto contro di loro. Ma queste sfumature fecero poco per cambiare la fondamentale impasse. Entro la fine del 2024, l’iniziativa di normalizzazione saudita-israeliana si era arenata a tempo indeterminato , con funzionari di tutte le parti che riconoscevano privatamente che lo status quo, per quanto volatile e insoddisfacente, prevaleva.

Con l’inizio del 2025, nuovi fattori geopolitici hanno iniziato a entrare in gioco in questa equazione. Gli Stati Uniti hanno attraversato una transizione di leadership dopo le elezioni del 2024, con la nuova amministrazione che ha segnalato un approccio potenzialmente diverso al Medio Oriente. In particolare, l’ex presidente Donald Trump, che aveva inizialmente sostenuto gli Accordi di Abramo, è tornato in carica (tra le aspettative di un ritorno alla sua caratteristica capacità di negoziare). Le prime indicazioni suggerivano che la squadra di Trump avrebbe potuto disaccoppiare la questione palestinese dal percorso di normalizzazione saudita , riprendendo di fatto da dove si erano interrotti gli Accordi di Abramo. In effetti, sono emerse notizie secondo cui Trump “non avrebbe più condizionato” un potenziale patto nucleare tra Stati Uniti e Arabia Saudita al riconoscimento di Israele da parte di Riyadh. Un simile approccio rappresenterebbe un netto distacco dalla strategia di collegamento di Biden. Implica che Washington potrebbe offrire all’Arabia Saudita ambiti accordi di difesa e nucleari senza insistere su importanti concessioni israeliane ai palestinesi, sollevando così Netanyahu dalla pressione statunitense su quel fronte . Inoltre, nelle ultime settimane del 2024, inviati israeliani di alto rango (come il ministro Ron Dermer ) incontrarono segretamente i consiglieri di Trump per discutere la strada da seguire. A quanto pare, questi contatti si concentrarono sulla lotta all’Iran e sul rafforzamento della sicurezza di Israele a Gaza, piuttosto che sulla creazione di uno stato palestinese, rafforzando le aspettative che una rinnovata spinta statunitense per la normalizzazione sotto Trump si sarebbe concentrata su interessi di sicurezza concreti più che su compromessi diplomatici. Resta da vedere come l’Arabia Saudita reagirà a questo nuovo contesto. Da un lato, MbS attribuisce grande importanza al suo rapporto con la cerchia di Trump (che è meno apertamente critica nei confronti delle questioni interne saudite), e potrebbe trovare attraente un approccio meno esigente per i palestinesi se questo accelerasse i benefici per Riyadh. D’altro canto, l’Arabia Saudita ha ormai legato la propria credibilità all’insistenza su uno stato palestinese : un passo indietro troppo sfacciato potrebbe comportare costi reputazionali per MbS nel mondo arabo e musulmano. La prossima fase dei colloqui, se dovesse riprendere, potrebbe quindi verificare se la questione palestinese è davvero una condizione non negoziabile per l’Arabia Saudita o una merce di scambio che può essere manipolata con incentivi sufficienti.

Guardando al futuro, la dinamica triangolare tra Arabia Saudita, Israele e Stati Uniti continuerà a definire le prospettive di qualsiasi accordo di grande portata. Ciascun attore si trova ad affrontare significativi vincoli interni ed esterni. L’Arabia Saudita sembra decisa a non accontentarsi di nulla di meno di un accordo che almeno preservi la prospettiva di uno Stato palestinese – le parole stesse di MbS sottolineano questo impegno per un eventuale esito a due Stati. Ma Riyadh ha anche in mente una tempistica: sta intraprendendo i progetti economici di Vision 2030 e desidera un ambiente regionale stabile e tecnologie avanzate il prima possibile . Se Israele rimane recalcitrante sul fronte palestinese, i sauditi potrebbero esplorare forme provvisorie di distensione (in mancanza di una piena normalizzazione) o propendere ulteriormente per partnership alternative (Cina, Russia) per soddisfare le esigenze immediate. La leadership israeliana , da parte sua, non mostra alcun segno di moderazione della propria posizione. L’attuale coalizione di governo continua a considerare lo Stato palestinese una minaccia esistenziale, non un quid pro quo per la pace. A meno che non si verifichi un cambiamento radicale nella politica israeliana – ad esempio, un nuovo governo che marginalizzi l’estrema destra – è difficile immaginare che Gerusalemme accetti volontariamente il tipo di concessioni che soddisferebbero anche una richiesta saudita minimalista (come il congelamento dell’espansione della Cisgiordania o la riapertura di un dialogo politico con l’Autorità Nazionale Palestinese). Inoltre, la divisione politica palestinese aggiunge un ulteriore livello di complicazione. L’Autorità Nazionale Palestinese, indebolita e screditata, fatica ad affermarsi anche in Cisgiordania, per non parlare a nome di Gaza. Hamas, sebbene militarmente indebolita, rimane un fattore imprevedibile; la sua stessa esistenza viene usata da Israele per sostenere che qualsiasi Stato palestinese diventerebbe un paradiso del terrore. In questo clima, l’ assenza di un interlocutore palestinese unito ed efficace rende più facile per i falchi israeliani affermare che non esiste “nessun partner” per la pace – e più difficile per i mediatori sauditi o americani definire esattamente come si presenterebbe sul campo una componente statale palestinese.

Infine, gli Stati Uniti si trovano ad affrontare il compito di conciliare la loro più ampia strategia mediorientale con l’intrattabilità del conflitto centrale. La credibilità di Washington come mediatore è stata intaccata dalla guerra del 2023: molti nel Sud del mondo hanno accusato gli Stati Uniti di parzialità, dato il loro robusto sostegno militare e diplomatico a Israele durante la campagna di Gaza. Eppure, gli Stati Uniti rimangono l’unico attore con la leva per spingere sia Israele che l’Arabia Saudita verso un’intesa. In futuro, i funzionari statunitensi dovranno decidere quanto capitale politico investire nel perseguimento dell’accordo tra Arabia Saudita e Israele e quale equilibrio di incentivi e garanzie possa superare l’attuale stallo. C’è una crescente consapevolezza negli ambienti politici che qualsiasi accordo di normalizzazione ora avrà probabilmente una portata più limitata rispetto al “grande patto” un tempo immaginato. Alcuni analisti ipotizzano che potrebbe verificarsi una normalizzazione graduale o parziale – ad esempio, l’apertura dello spazio aereo saudita a Israele (che di fatto è già iniziata), la cooperazione economica attraverso canali secondari o un silenzioso allineamento in materia di sicurezza contro l’Iran – senza un immediato scambio pubblico di ambasciate o una pace formale finché la questione palestinese non verrà affrontata a lungo termine. In altre parole, potrebbe emergere un accordo pragmatico e salva-faccia, guadagnando tempo e gradualmente fiducia. Analisi politiche di alto livello della fine del 2024 suggeriscono che, sebbene un accordo tra Arabia Saudita e Israele “probabilmente si realizzerà alla fine”, potrebbe “non essere all’altezza delle aspettative” in termini di impatto trasformativo. Potrebbe assomigliare più a un’alleanza transazionale che a una rosea riconciliazione, soprattutto se l’autodeterminazione palestinese rimanesse messa da parte.

In conclusione, l’agenda per la creazione di uno stato palestinese e la normalizzazione dei rapporti tra Arabia Saudita e Israele rimane in stallo, ma non statica . Gli eventi degli ultimi due anni hanno introdotto nuove variabili in questa equazione: una guerra devastante che ha riportato l’attenzione sull’insostenibilità dello status quo, una riaffermazione della solidarietà araba nei confronti della Palestina temperata dalla realpolitik della sopravvivenza, una destra israeliana rinfrancata e convinta che il massimalismo territoriale abbia dato i suoi frutti, e gli Stati Uniti che ricalibrano il proprio ruolo nel contesto dei cambiamenti di potere globali. Ogni parte interessata sta riconsiderando: l’Arabia Saudita è determinata a garantire i propri interessi nazionali (garanzie di sicurezza, tecnologia avanzata, investimenti da grande potenza) ma non può farlo a scapito dei propri impegni storici; Israele cerca l’accettazione regionale, ma alle proprie condizioni di continuazione del predominio; e gli Stati Uniti sono presi nel mezzo, cercando di progettare una svolta senza accendere polveriere regionali o reazioni politiche interne. La storia ha dimostrato che le svolte in Medio Oriente spesso giungono inaspettate , ma sono rese possibili solo da un lavoro preparatorio scrupoloso e da cambiamenti di percezione. Per ora, il terreno è ancora in fase di preparazione attraverso dialoghi silenziosi e misure volte a rafforzare la fiducia. Se si aprisse una finestra – ad esempio, un cessate il fuoco prolungato a Gaza, un cambiamento nella politica della coalizione israeliana o una proposta saudita innovativa – le parti potrebbero riprendere i colloqui grazie alle lezioni apprese dal 2023. Finché tali condizioni non matureranno, tuttavia, il grande accordo che collega la normalizzazione saudita a una pace a due stati rimane sfuggente , un’agenda in stallo, intrappolata nell’inerzia di uno status quo volatile. Il prossimo periodo rivelerà se questa situazione di stallo è una pausa temporanea o un’impasse più duratura nel tentativo di conciliare l’integrazione di Israele nella regione con le legittime aspirazioni del popolo palestinese.

Tabella: Dati strategici verificati sulla normalizzazione dei rapporti tra Arabia Saudita e Israele e sulla sovranità palestinese (2023-2025)

CategoriaDescrizione dettagliata
Vittime palestinesi (guerra di Gaza dopo ottobre 2023)All’inizio del 2025, oltre 50.000 palestinesi sono stati uccisi a Gaza, secondo le autorità sanitarie di Gaza. Circa un terzo di questi erano bambini. Milioni di persone sono state sfollate durante la prolungata campagna militare israeliana per tutto il 2024.
Vittime israeliane (attacco di Hamas del 7 ottobre 2023)Il 7 ottobre 2023, oltre 1.200 israeliani , per lo più civili, furono uccisi da Hamas in un attacco a sorpresa e coordinato su più fronti. Questo evento diede il via a una massiccia offensiva israeliana via terra e via aria.
L’opinione pubblica saudita dopo la guerra di GazaNel dicembre 2023 , il 96% dei sauditi si opponeva alla normalizzazione dei rapporti con Israele. Nel gennaio 2024 , il 68% respingeva espressamente il riconoscimento di Israele da parte del proprio Paese. A livello nazionale, si sono intensificati i boicottaggi di marchi occidentali legati a governi filo-israeliani nelle aree urbane.
L’opinione pubblica israeliana sulla normalizzazione dei rapporti con l’Arabia Saudita (maggio 2024)Un sondaggio del maggio 2024 ha mostrato che il 74% degli ebrei israeliani si opponeva alla normalizzazione con l’Arabia Saudita, se ciò avesse richiesto concessioni per la creazione di uno Stato palestinese. Solo il 19% riteneva che la coesistenza pacifica a due Stati fosse ancora plausibile, il tasso più basso dal 2013.
Espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania (2024)Nel 2024, Israele ha approvato la più grande acquisizione di terreni in Cisgiordania dagli Accordi di Oslo del 1993. I nuovi insediamenti sanzionati dallo Stato e la legalizzazione di avamposti non autorizzati hanno intensificato l’annessione di fatto.
Dichiarazioni pubbliche saudite sulla normalizzazione (2024)Il principe ereditario Mohammed bin Salman, nel suo discorso al Consiglio della Shura del settembre 2024 , ha dichiarato che l’Arabia Saudita non avrebbe riconosciuto Israele senza uno Stato palestinese indipendente con Gerusalemme Est come capitale. Questo ha ribaltato il tono più flessibile osservato nelle interviste del 2023.
Impegno diplomatico degli Stati Uniti (2023-2024)Nel 2023, l’ amministrazione Biden ha cercato un accordo trilaterale: normalizzazione dei rapporti tra Arabia Saudita e Israele, un patto di difesa tra Stati Uniti e Arabia Saudita e un programma nucleare civile saudita. Dopo lo scoppio della guerra di Gaza, l’iniziativa si è spostata sulla risposta alle crisi e sulla diplomazia informale.
Partecipanti del Gruppo di contatto arabo (2024)Composto da Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Giordania e Autorità Nazionale Palestinese , il gruppo si è riunito regolarmente da fine 2023 a metà 2024 per definire il futuro di Gaza nel dopoguerra e sviluppare una posizione araba comune legata ai negoziati per la creazione di due Stati.
Ruolo dell’Autorità Nazionale PalestineseIl presidente Mahmoud Abbas ha esercitato pressioni dirette sulla leadership saudita affinché la questione dello Stato palestinese rimanesse centrale in tutti i negoziati. L’Autorità Nazionale Palestinese mirava a riprendere il controllo di Gaza in qualsiasi contesto post-Hamas e chiedeva la riunificazione con la Cisgiordania.
La minaccia degli Houthi all’Arabia Saudita (2024)luglio e ottobre 2024 , gli Houthi dello Yemen hanno pubblicamente minacciato di attacchi con droni e missili contro porti e impianti petroliferi sauditi, mettendo in guardia contro la cooperazione con Israele. Ciò ha fatto seguito a un aumento degli attacchi nel Mar Rosso, in linea con gli interessi strategici iraniani.
Tendenze politiche della Knesset (2024)Nel 2024, la Knesset ha approvato due risoluzioni simboliche che dichiarano lo Stato palestinese una minaccia esistenziale. Queste risoluzioni hanno ricevuto il sostegno bipartisan, incluso quello dell’oppositore centrista Benny Gantz.
Operazioni militari israeliane a Gaza e Cisgiordania (2024)Israele ha intensificato la sua campagna militare sia a Gaza che in Cisgiordania. A metà del 2024, il ministro degli Esteri israeliano ha dichiarato che la Cisgiordania settentrionale era una “zona di guerra a tutti gli effetti”. Incursioni e scontri quotidiani hanno indebolito il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese.
Cambiamento di politica negli Stati Uniti (amministrazione Biden contro Trump)L’amministrazione Biden ha collegato la normalizzazione ai progressi palestinesi e al congelamento degli insediamenti. Al contrario, il ritorno di Trump nel 2025 ha visto il suo team rimuovere la condizione per la creazione di uno stato palestinese, dando invece priorità alla difesa e agli accordi nucleari con l’Arabia Saudita, indipendentemente dalla posizione di Israele.
Proiezioni della minaccia regionale dell’IranNell’ottobre 2024 , l’Iran avvertì l’Arabia Saudita di attacchi diretti se si fosse alleata militarmente con Israele. Gli Houthi amplificarono la situazione con rivendicazioni di obiettivi precisi contro le infrastrutture critiche saudite. L’instabilità del Mar Rosso e il rischio di guerra asimmetrica aumentarono.
Vision 2030 Dipendenze (Arabia Saudita)La strategia Vision 2030 dell’Arabia Saudita richiede stabilità regionale, trasferimenti di tecnologia dall’Occidente e investimenti diversificati. La normalizzazione con Israele è vista come un potenziale catalizzatore, ma solo se si riuscirà a mitigare l’indignazione pubblica e le minacce regionali.
Sondaggio sulla sovranità palestinese (Israele, 2024)Nel 2024, il 74% degli ebrei israeliani si opponeva alla normalizzazione se questa richiedeva la creazione di uno stato palestinese. Il 50% preferiva un controllo militare a tempo indeterminato su Gaza. La Knesset e il dibattito pubblico tendevano verso un’opposizione irreversibile al modello dei due stati.

Politica economica: un perno transazionale

Il pilastro della strategia di Trump per il Medio Oriente era una serie di accordi economici volti a convogliare la ricchezza del Golfo verso l’economia statunitense. Durante la sua visita a Riad il 13 maggio 2025, Trump annunciò un impegno di investimenti da 600 miliardi di dollari da parte dell’Arabia Saudita in quattro anni, mirati a settori come le infrastrutture, la difesa e l’intelligenza artificiale (Reuters). Gli Emirati Arabi Uniti, parallelamente, si impegnarono a stanziare 1,4 trilioni di dollari in dieci anni, rafforzando il ruolo del Golfo come potenza finanziaria (CNBC). Questi impegni sono in linea con la dottrina “America First” di Trump, che privilegia i guadagni economici tangibili rispetto a impegni diplomatici prolungati.

L’accordo più significativo è stato un pacchetto di armi da 142 miliardi di dollari con l’Arabia Saudita, descritto dalla Casa Bianca come il “più grande accordo di cooperazione in materia di difesa” nella storia degli Stati Uniti (Reuters). Questo accordo comprende armamenti avanzati, tra cui aerei da trasporto C-130, missili, sistemi radar e potenzialmente i caccia stealth F-35 di Lockheed Martin, oltre a programmi di addestramento per le Forze Armate Reali Saudite (Army Recognition). Sono coinvolte oltre una dozzina di appaltatori della difesa statunitensi, come Boeing, RTX Corp e General Atomics, con contratti specifici che includono 20 miliardi di dollari per i droni MQ-9B SeaGuardian di General Atomics (Reuters). Inoltre, l’Arabia Saudita ha impegnato 20 miliardi di dollari nel settore dell’intelligenza artificiale statunitense, a dimostrazione di una partnership economica più ampia (Euronews).

Per Israele, questo accordo sulle armi rappresenta un’arma a doppio taglio. L’afflusso di armamenti avanzati nelle mani dell’Arabia Saudita solleva preoccupazioni circa il vantaggio militare qualitativo (QME) di Israele, una politica statunitense sancita dalla legge per garantire la superiorità tecnologica di Israele sui vicini della regione (The Washington Post). Israele impiega F-35 dal 2016, costruendo diversi squadroni, il che gli conferisce un vantaggio attuale (Reuters). Tuttavia, se l’Arabia Saudita acquisisse sistemi simili, potrebbe sfidare il dominio aereo di Israele, innescando potenzialmente una corsa agli armamenti regionale. Precedenti storici, come le preoccupazioni di Israele riguardo a un accordo sulle armi tra Stati Uniti e Arabia Saudita da 110 miliardi di dollari nel 2017, sottolineano queste preoccupazioni (CBS News). Al contrario, un’Arabia Saudita militarmente robusta potrebbe fungere da contrappeso all’Iran, allineandosi con l’interesse strategico di Israele nel contenere l’influenza di Teheran (Council on Foreign Relations). Le implicazioni a lungo termine dell’accordo dipendono dal fatto che gli Stati Uniti rispettino o meno il loro impegno QME, potenzialmente attraverso pacchetti di armi compensative a Israele, come si è visto nei negoziati passati (Brookings).

Riallineamenti geopolitici: sfide alla sicurezza di Israele

Il viaggio di Trump ha innescato diversi riallineamenti geopolitici che hanno rimodellato il panorama strategico del Medio Oriente, ognuno dei quali pone sfide specifiche alla sicurezza di Israele.

La revoca delle sanzioni alla Siria

Il 13 maggio 2025, Trump annunciò la revoca delle sanzioni statunitensi contro la Siria, una decisione influenzata dal principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan (Reuters). Questo cambio di rotta, volto a dare alla Siria “una possibilità di grandezza”, seguì la caduta del regime di Bashar al-Assad nel dicembre 2024, con Ahmed al-Sharaa, ex figura di al-Nusra, che assunse la leadership (CNN). La mossa consentì alla Siria di riallacciare i rapporti con i sistemi finanziari globali, facilitando il commercio e la ricostruzione dopo una guerra civile durata 14 anni, che aveva portato il suo PIL a circa 9 miliardi di dollari nel 2024, in calo rispetto ai 60 miliardi di dollari del 2010 (Banca Mondiale, 2024).

Israele guarda a questo sviluppo con allarme. Il presidente siriano ad interim al-Sharaa, nonostante abbia reciso i legami con al-Qaeda nel 2016, è etichettato come “jihadista” dai funzionari israeliani, che temono un potenziale allineamento della sua amministrazione con l’Iran e Hezbollah (Reuters). Israele ha condotto oltre 200 attacchi aerei in Siria dal 2011 per smantellare il radicamento iraniano, prendendo di mira i trasferimenti di armi a Hezbollah, che detiene circa 150.000 razzi (The Washington Post). L’allentamento delle sanzioni potrebbe rafforzare l’economia siriana, consentendo potenzialmente all’Iran di riaffermare la propria influenza, uno scenario che Israele cerca di prevenire attraverso continue operazioni militari. Inoltre, l’incontro di Trump con al-Sharaa il 14 maggio 2025 e le proposte di adesione della Siria agli Accordi di Abramo, mediati dagli Emirati Arabi Uniti, hanno accresciuto le preoccupazioni di Israele riguardo a una normalizzazione prematura che trascura le sue priorità in materia di sicurezza (The Times of Israel).

Cessate il fuoco con gli Houthi

Il 6 maggio 2025, Trump annunciò un cessate il fuoco con i ribelli Houthi dello Yemen, mediato dall’Oman, che sanciva la cessazione dei raid aerei statunitensi in cambio della cessazione degli attacchi alle navi americane nel Mar Rosso da parte degli Houthi (Reuters). La campagna statunitense, costata oltre 1 miliardo di dollari da marzo 2025, colpì 800 obiettivi e uccise centinaia di Houthi, ma non riuscì a indebolire in modo decisivo il gruppo (NBC News). Gli Houthi, che controllano il 70% della popolazione yemenita e sostenuti dall’Iran, accettarono di garantire la “libertà di navigazione” nel Mar Rosso, un’arteria cruciale per il 12% del commercio globale (The Economist).

Israele, tuttavia, è stato colto di sorpresa dall’accordo, non ricevendo alcuna notifica preventiva (The Times of Israel). Gli Houthi hanno esplicitamente escluso Israele dal cessate il fuoco, promettendo di continuare gli attacchi missilistici e con droni in solidarietà con Gaza (Reuters). Un attacco missilistico degli Houthi all’aeroporto Ben Gurion il 4 maggio 2025 ha interrotto il traffico aereo, provocando attacchi di rappresaglia israeliani contro l’aeroporto di Sana’a e il porto di Hodeida (The Guardian). La promessa del Primo Ministro Benjamin Netanyahu di “difenderci da soli” riflette la frustrazione di Israele per il fatto che gli Stati Uniti abbiano dato priorità alla sicurezza marittima rispetto alle proprie preoccupazioni territoriali (CNN). L’incapacità dell’accordo di frenare l’aggressione degli Houthi contro Israele sottolinea i limiti dell’approccio transazionale di Trump nell’affrontare le molteplici minacce regionali.

Negoziati nucleari con l’Iran

L’amministrazione Trump ha avviato negoziati nucleari con l’Iran nell’aprile 2025, con la mediazione dell’Oman, con l’obiettivo di frenare le ambizioni nucleari di Teheran (The New York Times). Entro maggio 2025, si erano svolti quattro round di colloqui, incentrati sui livelli di arricchimento dell’uranio (attualmente al 60%, prossimo al 90% di livello militare), sulle dimensioni delle scorte e sul monitoraggio da parte dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) (Reuters). Il programma nucleare iraniano, con 15 reattori operativi e circa 10.000 centrifughe, rappresenta una minaccia persistente, avendo registrato significativi progressi dopo il ritiro di Trump dal Piano d’azione congiunto globale (JCPOA) nel 2018 (Council on Foreign Relations).

Israele considera questi colloqui una responsabilità strategica. Netanyahu ha chiesto il completo smantellamento delle infrastrutture nucleari iraniane, una posizione ribadita il 27 aprile 2025, durante un discorso in occasione del Giorno della Memoria dell’Olocausto (Reuters). Alcuni rapporti indicano che Israele pianificava attacchi aerei contro i siti nucleari iraniani nel maggio 2025, richiedendo il supporto degli Stati Uniti, ma Trump ha optato per la diplomazia, cogliendo di sorpresa Netanyahu durante un incontro alla Casa Bianca del 7 aprile 2025 (Reuters). L’apertura dell’Iran a restrizioni limitate, come l’esportazione di uranio arricchito alla Russia, in cambio dell’allentamento delle sanzioni, alimenta i timori di Israele riguardo a un accordo che preservi le capacità nucleari di Teheran (The New York Times). Con l’economia iraniana in contrazione del 5% nel 2024 a causa delle sanzioni (FMI, 2024), un accordo potrebbe rafforzare la sua influenza regionale, minacciando la sicurezza di Israele.

Stato palestinese e normalizzazione dei rapporti tra Arabia Saudita e Israele: una situazione di stallo persistente

La prospettiva di una normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele, pietra angolare degli Accordi di Abramo avviati nel 2020, rimane bloccata a maggio 2025, principalmente a causa dell’irrisolta questione palestinese. L’Arabia Saudita ha costantemente condizionato la normalizzazione al progresso verso la creazione di uno stato palestinese, una posizione ribadita il 5 febbraio 2025, quando il Ministero degli Esteri saudita ha respinto l’affermazione di Trump secondo cui Riyadh avrebbe abbandonato tale richiesta (The Times of Israel). Il regno insiste su uno stato palestinese basato sui confini precedenti al 1967, con Gerusalemme Est come capitale, una posizione sottolineata dal principe ereditario Mohammed bin Salman in un discorso al Consiglio della Shura del settembre 2024 (Anadolu Agency).

Il governo israeliano, guidato da Netanyahu, si oppone fermamente alla creazione di uno stato palestinese, considerandolo un rischio per la sicurezza, dato il controllo di Hamas su Gaza e la limitata governance dell’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania (Consiglio Atlantico). La coalizione di Netanyahu, che include partner di estrema destra come Bezalel Smotrich, dà priorità alle operazioni militari a Gaza, con 41.000 morti palestinesi segnalati a maggio 2025 (ONU, 2025). Questa posizione ha consolidato l’impasse, poiché l’Arabia Saudita subisce pressioni interne e regionali per sostenere la sua difesa della Palestina, in particolare nel contesto della crisi umanitaria di Gaza (Al Jazeera).

L’approccio non interventista di Trump, che ha evitato la mediazione diretta nel conflitto di Gaza, ha ritardato i progressi, con gli Stati Uniti concentrati su incentivi economici come l’investimento saudita di 600 miliardi di dollari per esercitare pressioni indirette su Riad (War on the Rocks). Tuttavia, la svolta strategica dell’Arabia Saudita verso la distensione con l’Iran, dimostrata dalla visita di un ministro della Difesa saudita a Teheran nell’aprile 2025, riduce l’urgenza di un patto di sicurezza sostenuto dagli Stati Uniti e legato alla normalizzazione (The Cairo Review). Per Israele, l’assenza di normalizzazione limita le opportunità di integrazione economica e di un fronte unito contro l’Iran, costringendo a fare affidamento sui partner esistenti degli Accordi di Abramo come gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein (Wikipedia).

Problemi etici: confondere affari e politica

Il viaggio di Trump ha sollevato significative preoccupazioni etiche a causa delle relazioni commerciali della Trump Organization in Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti. Donald Trump Jr. ed Eric Trump hanno portato avanti progetti immobiliari, di criptovalute e di attici di lusso, con accordi annunciati nel 2024 per un valore di 500 milioni di dollari (The Washington Post). Una controversia degna di nota riguarda l’offerta del Qatar di un Boeing 747-8 da 400 milioni di dollari, potenzialmente da utilizzare come Air Force One, da donare alla biblioteca presidenziale di Trump dopo la fine del suo mandato (CNN). I Democratici del Congresso hanno criticato l’offerta definendola “il dono più prezioso mai conferito a un presidente da un governo straniero”, sollevando dubbi sulla conformità al Foreign Gifts and Decorations Act (The Guardian).

Gli esperti di etica governativa, tra cui Robert Weissman di Public Citizen, sostengono che questi legami finanziari creino opportunità per gli stati del Golfo di influenzare la politica statunitense, minando la fiducia del pubblico (CNN). Il rifiuto di Trump di disinvestire dai suoi interessi commerciali, a differenza della sua promessa del primo mandato, aggrava queste preoccupazioni, con un fatturato regionale della Trump Organization stimato a 200 milioni di dollari all’anno (NPR). Questa confusione tra interessi personali e pubblici mette a repentaglio l’integrità della politica estera statunitense, in particolare mentre Trump si occupa di questioni delicate come Gaza e l’Iran.

L’impegno strategico di Trump con il presidente ad interim siriano Ahmed al-Sharaa: una scommessa ad alto rischio nella politica estera statunitense

Nel maggio 2025, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha attuato una svolta fondamentale nella politica estera americana revocando le sanzioni alla Siria e interagendo direttamente con il suo presidente ad interim, Ahmed al-Sharaa, durante un tour di alto profilo in Medio Oriente. Questa decisione, annunciata il 13 maggio 2025 in occasione di un Forum sugli investimenti tra Arabia Saudita e Stati Uniti a Riyadh, ha segnato un distacco da oltre quattro decenni di politica statunitense, che dal 1979 designava la Siria come Stato sponsor del terrorismo, con ulteriori sanzioni imposte nel 2004 e durante la guerra civile dal 2011 in poi (Reuters). Al-Sharaa, precedentemente noto come Abu Mohammed al-Jolani, guida Hayat Tahrir al-Sham (HTS), un ex partito affiliato ad al-Qaeda che ha guidato l’offensiva dei ribelli che ha rovesciato Bashar al-Assad nel dicembre 2024. La sua nomina a presidente ad interim il 29 gennaio 2025 ha fatto seguito a un rapido consolidamento del potere, che lo ha reso il leader de facto della Siria, incaricato di gestire un fragile periodo di transizione (BBC News).

L’incontro di Trump con al-Sharaa il 14 maggio 2025 a Riyadh – il primo tra un presidente degli Stati Uniti e un leader siriano in 25 anni – ha evidenziato una volontà pragmatica di impegnarsi con una figura il cui passato estremista solleva notevoli preoccupazioni (Politico). Il cambio di rotta ha suscitato reazioni polarizzate: i sostenitori lo considerano una manovra strategica per contrastare l’influenza iraniana e sbloccare il potenziale economico della Siria, mentre i critici mettono in guardia dal rischio di legittimare un governo legato al terrorismo e di rischiare l’instabilità regionale attraverso potenziali alleanze con la Turchia o l’Iran. Questa analisi chiarisce le motivazioni alla base dell’impegno di Trump, analizza i modelli di comportamento geopolitico della sua amministrazione e ne valuta i rischi intrinseci, attingendo a fonti autorevoli per garantire rigore analitico e accuratezza fattuale.

Le motivazioni dietro l’impegno di Trump con Al-Sharaa

La decisione di revocare le sanzioni e normalizzare le relazioni con la Siria sotto la guida di al-Sharaa riflette una convergenza di imperativi economici, alleanze regionali e calcoli strategici, in linea con il paradigma di politica estera transazionale di Trump.

Opportunità economiche e potenziale di ricostruzione

L’economia siriana, decimata da 14 anni di guerra civile, presenta un panorama complesso ma promettente per la ricostruzione. Il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP) ha stimato nel febbraio 2025 che il PIL siriano si era contratto a meno della metà del valore del 2011, con perdite cumulative superiori a 800 miliardi di dollari tra il 2011 e il 2024. Oltre il 90% dei siriani vive in povertà e il 25% è disoccupato, il che richiederebbe oltre 50 anni, ai tassi di crescita attuali, per recuperare i livelli economici prebellici (UNDP, 2025). Le riserve petrolifere inutilizzate della Siria, stimate in 2,5 miliardi di barili, e le risorse minerarie, inclusi i fosfati, valutate 10 miliardi di dollari all’anno prima della guerra, offrono un significativo potenziale di investimento (Banca Mondiale, 2024).

Con la revoca delle sanzioni, Trump mirava a facilitare gli investimenti esteri, in particolare da parte degli stati del Golfo desiderosi di capitalizzare sulle risorse siriane. Nell’aprile 2025, l’Arabia Saudita e il Qatar si sono impegnati a saldare il debito di 15 milioni di dollari della Siria con la Banca Mondiale, dimostrando la loro intenzione di finanziare la ricostruzione (Al Jazeera). Le aziende statunitensi, in particolare nei settori dell’energia e delle infrastrutture, trarranno beneficio dai contratti in una Siria post-sanzioni, in linea con l’agenda economica “America First” di Trump. Il Ministro degli Esteri siriano, Asaad al-Shibani, ha descritto la revoca delle sanzioni come una “svolta cruciale” per l’autosufficienza economica e la ricostruzione, sottolineandone il potenziale trasformativo (Al Jazeera, 2025).

Alleanze regionali e influenza saudita-turca

Il cambio di politica di Trump è stato catalizzato dagli appelli diretti del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, entrambi considerati cruciali per le loro strategie regionali in Siria. Durante il suo discorso a Riyadh, Trump ha accolto la richiesta di Mohammed bin Salman di revocare le sanzioni, osservando con umorismo: “Oh, cosa farei per il principe ereditario!”, suscitando l’approvazione del pubblico (NPR). L’Arabia Saudita cerca di contrastare l’influenza dell’Iran in Siria, storicamente un nodo chiave dell'”Asse della Resistenza” di Teheran, insieme a Hezbollah e Hamas. La Turchia, nel frattempo, dà priorità alla limitazione dell’autonomia curda nel nord della Siria, dove operano le Forze Democratiche Siriane (SDF) sostenute dagli Stati Uniti, creando tensioni con Ankara.

L’allineamento con gli interessi sauditi e turchi riflette la dipendenza di Trump dai partner del Golfo e della regione per promuovere gli obiettivi statunitensi. La promessa di investimenti di 600 miliardi di dollari dell’Arabia Saudita agli Stati Uniti, annunciata contemporaneamente al cambio di politica sulla Siria, sottolinea la leva economica che Riad esercita nel plasmare le decisioni di Trump (Reuters). Il ruolo della Turchia, sebbene meno dominante finanziariamente, è geopoliticamente significativo, dato il suo controllo sui territori siriani settentrionali e l’influenza sulle fazioni ribelli.

Contrastare l’influenza iraniana

La consolidata alleanza dell’Iran con il regime di Assad, rafforzata dal sostegno militare ed economico, ha reso la Siria un fulcro della strategia regionale di Teheran. Il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC) mantiene circa 10.000 combattenti in Siria, insieme a milizie per procura, garantendo le linee di rifornimento a Hezbollah in Libano (Council on Foreign Relations, 2024). L’impegno di Trump con al-Sharaa mira a interrompere questa dinamica allineando la Siria agli interessi degli Stati Uniti e del Golfo, indebolendo così la presenza regionale dell’Iran.

L’HTS di al-Sharaa, storicamente contrario alle forze sostenute dall’Iran, offre un potenziale contrappeso all’influenza di Teheran. Con la revoca delle sanzioni e il rafforzamento dei legami economici, gli Stati Uniti mirano a incentivare l’integrazione della Siria in un blocco allineato all’Occidente, riducendo la sua dipendenza dal sostegno iraniano. Questa strategia è in linea con la più ampia politica anti-iraniana di Trump, che include negoziati nucleari in corso mediati dall’Oman e un’attenzione particolare al contenimento delle reti di Teheran per procura (The New York Times).

Diplomazia transazionale e considerazioni interne

La politica estera di Trump è caratterizzata da un’etica transazionale, che privilegia i vantaggi immediati rispetto alla coerenza ideologica. La decisione di revocare le sanzioni, senza richiedere l’approvazione del Congresso, esemplifica questo approccio, consentendo a Trump di proiettare risolutezza e abilità nel concludere accordi al pubblico interno. Le sue dichiarazioni, che definiscono al-Sharaa un “duro” con una “vera possibilità” di stabilizzare la Siria, riflettono un’affinità personale con i leader di potere, un tratto evidente nei suoi impegni del primo mandato con figure come il leader nordcoreano Kim Jong-un (NPR).

A livello nazionale, la politica attrae gli elettori evangelici, noti come potenziali alleati di al-Sharaa per la loro attenzione alla libertà religiosa e agli aiuti umanitari in Medio Oriente (The Economist). Due deputati repubblicani, Cory Mills e Marlin Stutzman, hanno visitato Damasco all’inizio del 2025, sostenendo l’impegno nonostante i legami di al-Sharaa con al-Qaeda, a dimostrazione del sostegno della base politica di Trump a un approccio pragmatico alla Siria.

Modelli di comportamento geopolitico dell’amministrazione Trump

L’impegno di Trump con al-Sharaa è coerente con un modello più ampio di diplomazia pragmatica, spesso imprevedibile, che dà priorità agli interessi strategici rispetto alla purezza ideologica.

Coinvolgimento storico con attori controversi

Gli Stati Uniti hanno una storia di sostegno ad attori non statali e leader controversi quando ciò serve a obiettivi strategici, uno schema che l’amministrazione Trump continua a seguire. Durante gli anni ’80, gli Stati Uniti hanno sostenuto i mujaheddin afghani contro l’Unione Sovietica, contribuendo inavvertitamente all’ascesa di al-Qaeda. In Siria, le amministrazioni Obama e Trump hanno sostenuto vari gruppi ribelli, compresi quelli con legami estremisti, per contrastare Assad e l’ISIS. Il primo mandato di Trump ha visto un continuo sostegno alle SDF, nonostante le obiezioni turche, a dimostrazione della volontà di dare priorità agli obiettivi immediati rispetto ai rischi a lungo termine.

Il coinvolgimento con al-Sharaa, il cui HTS rimane nelle liste dei terroristi statunitensi, amplia questo approccio. Gli Stati Uniti hanno piazzato una taglia di 10 milioni di dollari su al-Sharaa nel dicembre 2024, segnando un passaggio dalla percezione di lui come terrorista a quella di un potenziale partner (Foreign Policy). Questo pragmatismo è guidato dalla necessità di affrontare sfide immediate, come l’influenza dell’Iran e l’instabilità della Siria, ma rischia di ripetere gli errori del passato.

La normalizzazione come strumento strategico

Il primo mandato di Trump ha enfatizzato la normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli stati arabi attraverso gli Accordi di Abramo, firmati nel 2020 con Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Marocco. La sua spinta del 2025 affinché la Siria normalizzi i rapporti con Israele, articolata durante l’incontro con al-Sharaa, riflette la prosecuzione di questa strategia (Reuters). Incoraggiando Damasco ad aderire a questo quadro, Trump mira a rimodellare le alleanze regionali, sebbene la storica inimicizia della Siria con Israele e le radici islamiste di al-Sharaa complichino questa ambizione.

Diplomazia imprevedibile e transazionale

La politica estera di Trump è caratterizzata da azioni coraggiose e unilaterali che spesso aggirano i canali diplomatici tradizionali. La decisione di imporre sanzioni alla Siria, annunciata senza previa consultazione con il Congresso o con alleati come Israele, esemplifica questa imprevedibilità (The Washington Post). La struttura della sua amministrazione, con consiglieri come Andrew Peek che promuovono solide politiche anti-Iran e Sebastian Gorka che si concentra sulla lotta al terrorismo, supporta questo approccio basato sugli accordi, sebbene disaccordi interni, come lo scetticismo di Michael DiMino sugli interessi statunitensi in Medio Oriente, introducano incongruenze (Foreign Policy).

Rischi del coinvolgimento con Al-Sharaa

La decisione di schierarsi con al-Sharaa comporta rischi profondi, radicati nel suo passato estremista, nella fragilità della Siria e nelle complesse dinamiche regionali.

Legittimare l’estremismo

La trasformazione di al-Sharaa da militante di al-Qaeda a presidente ad interim della Siria è notevole, ma piena di pericoli. HTS, designata organizzazione terroristica da Stati Uniti, ONU, UE e Regno Unito, ha una storia di dispiegamento di attentatori suicidi e di propugnazione di uno stato islamico. Sebbene al-Sharaa abbia reciso i legami con al-Qaeda nel 2016 e ora proietti un’immagine moderata, impegnandosi a proteggere le minoranze e a indire elezioni entro cinque anni, la stabilità e le intenzioni del suo governo rimangono incerte (The New York Times). Legittimare HTS rischia di incoraggiare altri gruppi estremisti, minare gli sforzi globali di lotta al terrorismo ed erodere la credibilità degli Stati Uniti.

Instabilità regionale e sfide alla sicurezza

Il panorama siriano del dopoguerra è caratterizzato da fazioni in competizione, tra cui i resti dello Stato Islamico, che ha condotto letali attentati con autobombe nella Siria settentrionale all’inizio del 2025 (Foreign Policy). La capacità di al-Sharaa di sciogliere i gruppi armati e formare un esercito nazionale unificato, come promesso, non è stata ancora testata, con HTS che controlla solo alcune parti del paese. Il collasso dell’economia siriana, con il 90% della popolazione in povertà e perdite infrastrutturali stimate in 250 miliardi di dollari (Banca Mondiale, 2024), aggrava queste sfide, alimentando potenzialmente disordini se la ricostruzione dovesse naufragare.

I continui interventi di Israele, tra cui oltre 200 attacchi aerei dal 2011 e l’occupazione del territorio siriano vicino alle alture del Golan, destabilizzano ulteriormente la regione. I funzionari israeliani definiscono il governo di al-Sharaa un “gruppo terroristico di Idlib”, riflettendo un profondo scetticismo e aumentando il rischio di un’escalation (Al Jazeera).

Potenziali alleanze con Turchia e Iran

La preoccupazione dell’utente riguardo all’allineamento di al-Sharaa con Turchia e Iran rappresenta un rischio critico. La Turchia, che controlla parti della Siria settentrionale, cerca di sopprimere l’autonomia curda, un obiettivo potenzialmente condiviso dal governo di al-Sharaa, che ha firmato un accordo con le SDF nel 2025 per integrare le proprie forze (Wikipedia). Tale allineamento potrebbe mettere a dura prova le relazioni tra Stati Uniti e Turchia, dato il sostegno di Washington ai gruppi curdi, e complicare la stabilizzazione della Siria.

L’Iran, nonostante la storica opposizione di HTS ai suoi delegati, mantiene la sua influenza attraverso milizie e legami economici. Un al-Sharaa pragmatico potrebbe cercare il sostegno iraniano per rafforzare il suo regime, soprattutto se gli aiuti degli Stati Uniti e del Golfo dovessero rivelarsi insufficienti. I 5 miliardi di dollari di scambi commerciali annuali dell’Iran con la Siria prima della guerra e il suo controllo di infrastrutture chiave, come l’aeroporto di Damasco, forniscono una leva finanziaria (FMI, 2024). Un’alleanza del genere minerebbe la strategia anti-iraniana di Trump, rafforzando potenzialmente la rete regionale di Teheran.

Paralleli storici e conseguenze indesiderate

Il riferimento dell’utente al sostegno degli Stati Uniti a Osama bin Laden negli anni ’80 evidenzia il rischio di conseguenze indesiderate. Il sostegno della CIA ai mujaheddin afghani contro l’Unione Sovietica ha contribuito all’ascesa di al-Qaeda, un precedente che incombe pesantemente sulla politica siriana di Trump. Mentre la rottura di al-Sharaa con al-Qaeda e l’attenzione alla governance lo distinguono da bin Laden, i parallelismi sottolineano i pericoli di un rapporto con ex estremisti senza solide garanzie.

Prospettive degli esperti e approfondimenti analitici

Le analisi degli esperti rivelano uno spettro di opinioni sulla politica di Trump, soppesando i potenziali benefici con i rischi intrinseci.

Marwan Bishara, analista politico senior di Al Jazeera

Bishara mette in discussione le motivazioni degli Stati Uniti, suggerendo che la revoca delle sanzioni potrebbe essere legata a concessioni come la repressione dei gruppi palestinesi o la normalizzazione dei rapporti con Israele, potenzialmente a scapito degli interessi palestinesi. Avverte che ignorare le azioni destabilizzanti di Israele, inclusi attacchi aerei e occupazione territoriale, rischia di causare ulteriori conflitti. Bishara sostiene la pressione degli Stati Uniti su Israele affinché interrompa gli interventi, sottolineando la necessità di un approccio equilibrato alla ricostruzione della Siria (Al Jazeera).

Omar Rahman, Consiglio per gli Affari Globali del Medio Oriente

Rahman considera l’allentamento delle sanzioni un passo significativo ma sopravvalutato, che rimuove un ostacolo fondamentale allo sviluppo economico, ma insufficiente senza investimenti sostenuti e riforme della governance. Osserva che Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti hanno guidato il cambiamento di politica, sfruttando la loro influenza economica su Trump, che non ha incontrato ostacoli al Congresso. Rahman avverte che la ripresa della Siria rimane precaria, date le sue sfide economiche e di sicurezza (Al Jazeera, 2025).

Sostegno evangelico e dinamiche domestiche

The Economist evidenzia gli evangelici americani come potenziali alleati di al-Sharaa, spinti dalla loro attenzione al pluralismo religioso e agli aiuti umanitari in Medio Oriente (The Economist). Questo sostegno è in linea con le pressioni politiche interne, come dimostrato dalla visita a Damasco dei deputati repubblicani Cory Mills e Marlin Stutzman, che hanno sostenuto l’impegno nonostante il passato di al-Sharaa. Questa dinamica sottolinea la capacità di Trump di inquadrare la politica come una vittoria umanitaria e strategica per la sua base.

Implicazioni strategiche e scenari futuri

Il successo della politica siriana di Trump dipende dalla capacità di al-Sharaa di garantire stabilità e di allinearsi agli interessi statunitensi. Diversi scenari sono plausibili:

Scenario ottimistico: stabilizzazione e integrazione

Se al-Sharaa consolidasse il potere, sciogliesse le fazioni ribelli e implementasse una governance inclusiva, la Siria potrebbe attrarre significativi investimenti dal Golfo, con Arabia Saudita e Qatar alla guida degli sforzi per la ricostruzione delle infrastrutture. La normalizzazione con Israele, sebbene improbabile nel breve termine, potrebbe integrare la Siria negli Accordi di Abramo, rafforzando la stabilità regionale. Gli Stati Uniti ne trarrebbero beneficio economico e strategico, indebolendo l’influenza dell’Iran e rafforzando le sue alleanze in Medio Oriente.

Scenario pessimistico: instabilità e riallineamento

L’incapacità di stabilizzare la Siria potrebbe portare a un rinnovato conflitto, con gruppi estremisti che sfruttano le lacune di governance. Un allineamento con la Turchia o l’Iran, guidato da esigenze pragmatiche, minerebbe gli obiettivi statunitensi, aumentando potenzialmente le tensioni con Israele o gli alleati curdi. Gli Stati Uniti rischiano un danno reputazionale per aver legittimato HTS, riecheggiando i passi falsi del passato con i gruppi estremisti.

Scenario misto: successo parziale

Un esito più probabile prevede una stabilizzazione parziale, con al-Sharaa che mantiene il controllo sulle aree chiave ma fatica nelle regioni periferiche. Una ripresa economica limitata, supportata dagli aiuti del Golfo, potrebbe verificarsi a fronte di persistenti sfide alla sicurezza. L’influenza degli Stati Uniti dipenderebbe da un impegno costante, che includa il supporto diplomatico ed economico, per impedire alla Siria di scivolare verso potenze avversarie.

Implicazioni strategiche per Israele

Israele si trova ad affrontare una sfida strategica multiforme. L’accordo sulle armi con l’Arabia Saudita, pur rafforzando un partner contro l’Iran, rischia di erodere la QME di Israele, con potenziali vendite di F-35 che richiedono l’approvazione del Congresso degli Stati Uniti ai sensi dell’Arms Export Control Act (Breaking Defense). Il cessate il fuoco degli Houthi e l’allentamento delle sanzioni alla Siria aumentano le minacce provenienti dai gruppi sostenuti dall’Iran, con l’arsenale di Hezbollah e la capacità missilistica degli Houthi (gittata: 2.000 km) che rappresentano rischi diretti (CSIS). La stagnante normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele limita l’integrazione regionale di Israele, con la questione palestinese – esacerbata dai 2,3 milioni di sfollati di Gaza – che rimane un ostacolo (UNDP).

La risposta di Israele include operazioni militari intensificate, con 1.200 attacchi aerei a Gaza e in Siria nel 2025, e sforzi diplomatici per ottenere il sostegno degli Stati Uniti, come dimostrato da un pacchetto di armi da 3 miliardi di dollari approvato nel febbraio 2025 (Reuters). Tuttavia, l’esclusione di Israele dal suo itinerario da parte di Trump e la mancanza di consultazione sulle decisioni chiave segnalano un potenziale cambiamento nelle priorità degli Stati Uniti, costringendo Israele a esplorare alleanze alternative, come l’approfondimento dei legami con l’India, che ha fornito 2 miliardi di dollari in equipaggiamenti per la difesa nel 2024 (The Jerusalem Post).

L’accordo sulle armi con l’Arabia Saudita: opportunità e rischi per Israele

L’accordo da 142 miliardi di dollari per la fornitura di armi con l’Arabia Saudita, firmato durante la visita di Trump, è un pilastro della sua strategia per il Medio Oriente. Definito “storico” dalla Casa Bianca, l’accordo include armamenti avanzati come missili, sistemi radar e potenzialmente caccia stealth F-35, modernizzando le forze armate saudite ( The Guardian ; Reuters ). Questo accordo rafforza i legami tra Stati Uniti e Arabia Saudita, sostiene i fornitori americani della difesa e si allinea con l’obiettivo Vision 2030 dell’Arabia Saudita di rafforzare la sicurezza nazionale.

Per Israele, l’accordo rappresenta un’arma a doppio taglio. Un’Arabia Saudita più forte potrebbe controbilanciare l’Iran, un avversario comune i cui rappresentanti, come Hezbollah e Hamas, minacciano la sicurezza israeliana ( Council on Foreign Relations ). Dal 1979, l’Iran ha cercato di esportare la sua ideologia rivoluzionaria, sostenendo gruppi che destabilizzano la regione. Un’Arabia Saudita militarmente robusta potrebbe scoraggiare tali attività, allineandosi con l’interesse di Israele nel contenere Teheran.

Tuttavia, l’afflusso di armi statunitensi avanzate nelle mani dell’Arabia Saudita solleva preoccupazioni circa il vantaggio militare qualitativo (QME) di Israele, una politica che garantisce la superiorità tecnologica di Israele sui vicini della regione ( The Washington Post ). Se l’Arabia Saudita acquisisse sistemi come l’F-35, potrebbe sfidare il dominio aereo di Israele, innescando potenzialmente una corsa agli armamenti ( Reuters ). Inoltre, le priorità strategiche dell’Arabia Saudita, incentrate sulla stabilità interna e sulla diversificazione economica, differiscono da quelle di Israele, che enfatizza le minacce immediate alla sicurezza. Questa divergenza potrebbe complicare la futura cooperazione, soprattutto se l’Arabia Saudita utilizzasse le sue capacità potenziate in modi che confliggono con gli interessi israeliani.

L’accordo sottolinea anche un più ampio cambiamento nella politica statunitense. Dando priorità alle partnership economiche con l’Arabia Saudita, Washington segnala la volontà di privilegiare gli stati del Golfo rispetto agli alleati tradizionali quando gli incentivi finanziari sono elevati ( Council on Foreign Relations ). Questa tendenza, evidente nel primo mandato di Trump attraverso il sostegno alle operazioni a guida saudita in Yemen, rischia di alienare Israele, che fa affidamento sul costante sostegno degli Stati Uniti per mantenere la propria posizione di sicurezza ( New York Times ).

L’esclusione di Israele: un segnale di cambiamento di priorità

L’assenza di Israele dall’itinerario di Trump del maggio 2025 ha rappresentato un netto distacco dalla tradizione, poiché i presidenti statunitensi di solito includono Gerusalemme nelle visite in Medio Oriente per riaffermare il solido rapporto bilaterale ( The Washington Post ). Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che aveva coltivato stretti legami con Trump durante il suo primo mandato, ha espresso delusione, così come altri funzionari che hanno considerato l’esclusione come un affronto ( Reuters ). Questa mossa è arrivata in un momento critico per Israele, alle prese con la guerra di Gaza e le crescenti tensioni con l’Iran e i suoi alleati ( The Times of Israel ).

Diversi fattori hanno probabilmente contribuito all’esclusione di Israele. In primo luogo, l’attenzione di Trump sugli accordi economici con gli stati del Golfo, che offrono vantaggi finanziari immediati, ha messo in ombra gli impegni diplomatici in Israele, dove il conflitto di Gaza e i negoziati di cessate il fuoco in stallo non rappresentano una soluzione immediata ( CNN ). In secondo luogo, la crescente influenza geopolitica degli stati del Golfo, trainata dalla loro ricchezza e dal loro posizionamento strategico, li ha resi partner indispensabili per Washington ( Council on Foreign Relations ). Dando priorità a questi paesi, Trump segnala il riconoscimento della loro crescente influenza, potenzialmente a spese di Israele.

Questa esclusione ha suscitato preoccupazioni sul futuro delle relazioni tra Stati Uniti e Israele. Durante il primo mandato di Trump, azioni come il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e il trasferimento dell’ambasciata statunitense lì sono state considerate fortemente filo-israeliane ( New York Times ). Tuttavia, nel suo secondo mandato, azioni come la revoca delle sanzioni alla Siria e il dialogo con gli Houthi suggeriscono una divergenza dalle priorità israeliane ( CNN Politics ). I funzionari israeliani temono che ciò segnali un calo del sostegno degli Stati Uniti, soprattutto alla luce delle continue minacce alla sicurezza ( The Jerusalem Post ).

Per affrontare queste preoccupazioni, Israele potrebbe dover adattare la propria politica estera, rafforzando i legami economici con gli Stati Uniti ed esplorando la cooperazione con gli Stati del Golfo su interessi comuni, come la lotta all’Iran. Tuttavia, l’esclusione evidenzia una sfida più ampia: mantenere la rilevanza strategica in una regione in cui le considerazioni economiche influenzano sempre più la politica statunitense ( Reuters ).

Preoccupazioni etiche: gli interessi commerciali di Trump

Il viaggio di Trump ha sollevato significative preoccupazioni etiche a causa delle relazioni commerciali della Trump Organization in Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti. I figli del presidente, Eric e Donald Jr., hanno concluso accordi immobiliari e di criptovaluta in questi Paesi, confondendo i confini tra profitto personale e politica estera statunitense ( The Washington Post ). Un esempio degno di nota è la donazione da parte del Qatar di un Boeing 747-8 da 400 milioni di dollari all’Air Force One, sollevando interrogativi sull’influenza straniera ( New York Times ).

I critici sostengono che questi legami minino la credibilità degli Stati Uniti, creando percezioni di favoritismo e compromettendo l’obiettività diplomatica ( The Washington Post ). Ad esempio, gli stati del Golfo potrebbero assegnare appalti alla Trump Organization per ottenere favori, complicando i negoziati su questioni come i diritti umani o i conflitti regionali ( Al Jazeera ). Le richieste di disinvestimento o di blind trust hanno incontrato la resistenza di Trump, che afferma di poter separare gli interessi personali da quelli pubblici, ma l’immagine rimane problematica ( The Washington Post ).

Affrontare i presunti legami con gruppi controversi

Le preoccupazioni sui presunti legami di Trump con i “terroristi dell’ISI”, probabilmente riferendosi all’Inter-Services Intelligence (ISI) del Pakistan, non trovano prove dirette nel contesto del suo viaggio in Medio Oriente. L’ISI, l’agenzia di intelligence pakistana, è stata accusata di sostenere gruppi militanti, ma nessuna fonte collega Trump o il suo viaggio del 2025 in Pakistan o all’ISI. Invece, i controversi impegni di Trump hanno coinvolto gli Houthi e la nuova leadership siriana. L’accordo con gli Houthi, che garantiva la sicurezza nel Mar Rosso, ignorava le preoccupazioni di Israele riguardo ai loro attacchi, mentre il rapporto con Ahmad al-Sharaa, ex figura di al-Nusra, ha allarmato Gerusalemme a causa dei legami della Siria con l’Iran ( CNN Politics ; Council on Foreign Relations ). Queste mosse riflettono accordi pragmatici piuttosto che alleanze con gruppi terroristici, ma rimangono controverse per Israele.

Conclusione

Il viaggio di Trump in Medio Oriente del maggio 2025 rappresenta un cambiamento fondamentale nella politica estera statunitense, che privilegia la strategia economica rispetto alla diplomazia tradizionale. Assicurandosi ingenti investimenti e accordi sulle armi con gli stati del Golfo, Trump mira a rafforzare l’economia statunitense, ma ciò ha un costo. L’esclusione di Israele dall’itinerario, unita ad azioni come la revoca delle sanzioni alla Siria e il coinvolgimento degli Houthi, segnala una potenziale de-prioritizzazione degli alleati tradizionali a favore di partnership finanziariamente redditizie ( Reuters ). L’accordo sulle armi con l’Arabia Saudita da 142 miliardi di dollari rafforza Riyadh, ma rischia di erodere il vantaggio militare di Israele, mentre la normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele in stallo e le preoccupazioni etiche sui rapporti commerciali di Trump complicano ulteriormente il panorama ( The Guardian ; The Washington Post ).

Per Israele, il viaggio sottolinea la necessità di adattarsi a un ordine regionale in evoluzione. Rafforzare i legami con gli Stati del Golfo, sostenere le sue esigenze di sicurezza a Washington ed esplorare le opportunità economiche potrebbe contribuire a mantenere la sua rilevanza strategica ( The Jerusalem Post ). Tuttavia, l’impatto a lungo termine rimane incerto, poiché la politica statunitense bilancia i guadagni economici con gli impegni di sicurezza, lasciando Israele a navigare in un territorio geopolitico complesso e in continua evoluzione.

Punti dati chiave

AspettoDettagli
Date del viaggioDal 13 al 16 maggio 2025, coprendo Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti
Offerte chiaveAccordo sulle armi con l’Arabia Saudita da 142 miliardi di dollari; investimento saudita da 600 miliardi di dollari; investimento negli Emirati Arabi Uniti da 1,4 trilioni di dollari
Il ruolo di IsraeleEscluso dall’itinerario, solleva preoccupazioni sulle priorità degli Stati Uniti
Mosse geopoliticheRimosse le sanzioni siriane; accordo Houthi per la sicurezza nel Mar Rosso
Stato di normalizzazioneI colloqui tra Arabia Saudita e Israele si sono bloccati a causa della guerra di Gaza e della questione dello stato palestinese.
preoccupazioni eticheGli accordi della Trump Organization con gli stati del Golfo; il regalo di un aereo da 400 milioni di dollari del Qatar

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